Trascrizione intervista a AkaB:
di Micol Viola Vitale per
Universita La Sapienza
Università di Udine
Studio Azzurro
Quando
hai iniziato ad utilizzare il video?
Ho iniziato con i
fumetti intorno al ’94 successivamente mi è venuta voglia di vedere i miei disegni in
movimento, ho iniziato a fare delle piccole animazioni per capire che effetto
facessero. Le prime volte in cui si mette insieme un video, con l’aggiunta
dell’audio, si crea una vera magia. Da lì in poi, insieme ad un amico, ho
iniziato a fare piccole animazioni: siamo partiti da MTV Italia, che faceva videosigle
animate, tutto a Passo 1, mesi e mesi di lavoro e riprese in Super8. Ci siamo
confrontati con delle difficoltà tecniche che oggi possono apparire
“preistoriche” ma che per me sono state estremamente interessanti perché mi
hanno permesso di avere una visione d’insieme. Poi ho avuto una sorta di
“crisi”, del tutto normale per un ragazzo di 20 anni, e sono andato a vivere in
Islanda per un anno dedicandomi alla pittura.
Al mio ritorno, mio
padre aveva acquistato una MiniDV una videocamera digitale molto piccola, per
un uso amatoriale con la quale girava parecchio ma il fatto che non fosse poi
capace di riguardare ciò che aveva girato, ha fatto sì che mi impossessassi
della sua videocamera.
È stato l’inizio di
tutto: per un anno ho vissuto con la videocamera in mano girando qualsiasi cosa
accadesse e riversando la sera, in una sorta di rielaborazione di ciò che
vivevo. È tutto materiale su Mini dv che non ho mai riguardato ma che ho
conservato perché sono convinto che possa avere grandi potenzialità. Per me la
grande scoperta è stata capire che il cinema erano immagini ferme in movimento,
“ma allora nemmeno si muovono!”. Il mio primo cortometraggio è stato una
follia: l’ho fatto frame per frame con Photoshop, una cosa più semplice da fare
in analogico che in digitale perché alla fine avevo qualcosa come 2000 frame,
una mole incredibile, pesantissimi e difficili da gestire soprattutto perché i
computer non erano quelli di oggi.
Mattatoio, il mio film
in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella
sezione Nuovi Territori nel 2003, è stato girato con quella stessa videocamera
di mio padre, che ho ancora oggi.
Quindi
hai iniziato a conservare il tuo materiale sin da subito?
Sì, perché sentivo che
ciò che giravo dovesse essere preservato e perché mi agevolava nel momento in
cui i miei lavori venivano richiesti ai festival. Ho sempre avuto questa
sensazione di dover salvare materiale, al tempo eravamo tutti molto giovani e
serviva qualcuno che tenesse insieme le cose: l’ho fatto io, in modo
meticoloso, quasi ossessivo, ma poi ho perso tutto quel materiale durante un
trasloco. Per ciò che riguarda il mio lavoro io non butto nulla, tengo anche
gli schizzi che faccio al telefono.
Come
risolvevi i problemi tecnici: ripresa/montaggio?
Fino a che non ho avuto
la videocamera palmare, vedevo l’idea di lavorare con l’ausilio di altre
persone come qualcosa di fuori dalla mia portata. Venendo dai disegni, dai
fumetti, il mio approccio iniziale è passato attraverso l’animazione, una cosa
un po’ più “concreta”, i frame erano lì, ma ho lo stesso dovuto cercare una
persona che avesse il Super8 per fare i frame, spedire la pellicola, etc.
L’avvento del digitale
ha cambiato tutto, per 6-7 anni sono entrato in una sorta di “bolla del video”:
giravo e montavo, tantissimo materiale, tutti esperimenti. Molto di questo
girato è diventato Vjing, con dei software di montaggio live proiettavo i miei
video durante alcune serate milanesi. Per me c’è un forte parallelismo tra il mondo
del cinema e quello del fumetto, basti pensare che prima di fare un film si fa
un fumetto del film, lo storyboard. Quando ho iniziato a lavorare con i fumetti
ero molto giovane, mi sentivo inesperto rispetto ad altri e nonostante fossi io
a scrivere gran parte delle storie non mi sentivo ancora pronto per fare
l’autore. L’ho capito dopo ma il mio primo lavoro è stato fare il regista dei
fumetti: decidevo le inquadrature con il disegnatore, i colori col colorista,
la storia con lo sceneggiatore.
Torni
mai su quello che non hai sviluppato ma hai conservato?
Ho un tratto del
carattere che non mi permette di non finire le cose, ho un senso di completezza
molto forte. Mi è capitato a più riprese, e continua a succedermi, che chiudo
progetti che magari avevo iniziato 5 anni prima.
Se ho lasciato un
progetto in sospeso, so che prima o poi lo chiuderò.
Hai
utilizzato degli esperti? Noleggiato la strumentazione necessaria?
Ho sempre fatto tutto da
solo e mi riferisco anche alla fase di studio che è forse la più entusiasmante.
Per il primo film che è
andato a Venezia eravamo io, la mia ragazza dell’epoca e un mio amico che era
anche l’attore protagonista. Poi ho girato un lungometraggio con i ragazzi di
una scuola di cinema di Milano in cui tenevo un corso di cinema sperimentale.
Dopo è arrivato un
piccolo produttore di Milano che all’epoca si occupava di videoclip e che mi ha
prodotto un corto, forse l’unico audiovisivo che ho prodotto in condizioni
“normali”. Era un fumetto, ne avevo fatto la sceneggiatura e lo storyboard,
dovevo solo dire agli altri che tipo di inquadratura fare e spesso, per
questioni di spazi, le scene avvenivano in un’altra stanza ed io ero da solo
con un monitor. È stato strano: ero abituato a fare tutto e di colpo non dovevo
più fare nulla. Non posso nascondere che sento questo lavoro meno mio rispetto
agli altri.
Chi
sono i tuoi finanziatori?
Non ho avuto altre
esperienze oltre a quella che ho appena raccontato.
Hai
delle committenze?
Mentre insegnavo nella
scuola di cinema mi è capitato di girare un cortometraggio che una casalinga di
Voghera aveva scritto, la storia era incentrata sul rapporto dei suoi due fratelli
con il padre. Era scritta in modo molto sentimentale. Devo ammettere che è
stata un’esperienza molto divertente: lei mi ha pagato ed io ho un po’
scombinato la trama.
Una seconda occasione di
committenza è arrivata da parte di un signore sardo che però non aveva una vera
storia e voleva che fossi io a crearne una dai pochi spunti che mi aveva dato
ma in questo caso mi sono accorto che era una situazione che non aveva senso
per me.
La
produzione video ti garantisce un’entrata economica?
La mia storia mi ha
portato ad interessarmi ai vari linguaggi, come il teatro, la danza moderna, la
musica, perché penso che in qualche modo siano tutti figli di una matrice
comune e sia importante fraternizzare con ognuno. Tornare ai fumetti dopo 7
anni di cinema è stata tutta un’altra cosa, in quegli anni avevo acquisito
un’idea totalmente nuova del montaggio.
Tra i vari mondi e
linguaggi che ho frequentato, trovo che il cinema sia il più divertente, il più
soddisfacente, quello in cui mi sento a casa. La dinamica del cinema, scrivi un
film e sei da solo, lo pre-produci con al massimo un’altra persona, giri e vivi
un momento di grande interazione e poi ritorni alla solitudine, è poi molto
vicina alla mia natura, che mi impone di alternare momenti di solitudine a
momenti di socialità.
È qualcosa che farei
sempre ma dai video non ho mai guadagnato nulla.
In fondo credo che a
muovermi sia sempre stata la curiosità: dopo una lunga serie di esperimenti mi
è venuta voglia di provare a fare qualcosa di narrativo, che contenesse una
storia, una sorta di grande magia, di grande upgrade. Ho iniziato a fare dei
cortometraggi, alcuni dei quali sono andati a dei festival, alla base c’era la
voglia di capire come funzionasse una storia. Una volta compreso come
sviluppare i cortometraggi, ho voluto provare a fare un lungometraggio spinto
soprattutto dalla voglia di scoprire come risolvere le problematiche
strutturali che potevano sorgere.
È questa la logica con
cui ho girato il film: non faccio un film bello o brutto, né faccio un film da
mostrare agli altri. Si erano venute a creare una serie di fortunate
coincidenze: era estate, avevamo 3 mesi, una persona ci aveva lasciato la sua
casa, il progetto entusiasmava me e le altre persone coinvolte. Mattatoio è
nato così, ed è stato proposto al Festival di Venezia dai proprietari della
casa in cui avevo girato e della scuola di cinema in cui avevo insegnato.
Venezia è stata
un’esperienza molto diversa da ciò che mi aspettavo, molto meno incentrata sul
cinema di quanto credessi. Ad esempio, ho scoperto che i critici spessissimo si
addormentano in sala e confondono scene di diversi film. Su Mattatoio lessi una critica che diceva
quanto una scena non avesse nulla a che fare con il resto del film e il critico
aveva ragione: la scena citata non era
nel mio film ma in un corto spagnolo che era dopo il mio!
Tornando al discorso
economico: al Festival di Venezia Mattatoio era nella sezione “Nuovi Territori”
ed esiste una regola per cui se le sale scelgono di trasmettere il film più di
un mese dopo il Festival, i film vanno direttamente ai cinema d’essai. Quindi i
piccoli cinema che hanno poi chiesto Mattatoio, non mi hanno dato nulla a
livello economico.
Lì ho capito quanto
possa essere difficile mantenersi solo con la produzione audiovisiva.
C’è
un mercato?
Ancora oggi non mi è
chiaro come si possa vivere, e mantenersi, solo lavorando con i video.
In
che contesti vengono mostrati i tuoi video?
Prevalentemente
festival.
Qualche mese fa mi ha
contattato un ragazzo che ha creato questa specie di Netflix di tutto ciò che
non ha avuto distribuzione ed ho accettato di far parte del suo catalogo. Fino
a quel momento avevo sempre detto di no anche a proposte interessanti. Dopo
Mattatoio, Il corpo di Cristo e Vita e opere di un santo, non ho più voluto
saperne e rifiutavo le proposte di invito da parte dei festival ma anche
proposte di lavoro in questo ambito. È come se fossi stato ferito in una storia
d’amore: da un lato non voglio parlarne perché ho vissuto dei bei momenti, ma
dall’altro sento di non essere stato ricompensato in proporzione a quanto ho
investito.
Come
pensi venga valutata la videoarte nel contesto delle arti visive?
Come ho detto, mi piace
frequentare diversi linguaggi. Mi è capitato di essere invitato a festival di
arte in periodi nei quali normalmente esponevo tele ma essendo momenti in cui
ero molto preso dai video chiedevo sempre se fosse possibile mettere anche delle
mie videoinstallazioni, per me avevano lo stesso valore delle immagini ferme.
Pensi
che ci siano pregiudizi da parte dei critici nei confronti della videoarte?
L’unico pregiudizio che
sento molto forte, e credo sia molto italiano, riguarda il fatto che io fossi
conosciuto perché facevo fumetti e nel mondo dei fumetti la mia produzione
video era vista molto male, come se non si potessero frequentare linguaggi
diversi e si dovesse restare vincolati ad uno spicchio di mondo. Ma più si va
indietro nel tempo e più si nota quanto il ruolo dell’artista in origine avesse
a che fare col sapere più cose possibili, nei più svariati ambiti, era qualcosa
che dava densità ai lavori.
Adesso tutto è
fortemente specializzato, separato. Io invece ho bisogno di vedere come cose diverse
possono compenetrarsi nel mio lavoro, quanto il mio sguardo possa farsi più
profondo su certe cose.
La
produzione video è una costante della tua attività? Ti ha coinvolto solo per un
periodo? Se sì, perché hai troncato con questa pratica?
Per me è stato un amore
improvviso e non ho pensato ad altro per 6-7 anni, che sono poi gli stessi
impiegati dalle cellule a rigenerarsi e cambiarti completamente.
Poi è finita: ero andato
a fondo su quegli aspetti che mi interessavano e finché vivevo un processo di
apprendimento compensavo la mancanza di un ritorno economico con un ritorno in
termini di conoscenze. Quando ho aperto gli occhi questa era anche la parte che
compensava il fatto che non ci fossero delle entrate economiche perché il fatto
di imparare era per me già una sorta di ritorno, ma una volta finito questo
processo di apprendimento ho come aperto gli occhi e capito che non avevo avuto
nulla in cambio. Ho chiuso drasticamente e ci ho messo 10 anni per ammorbidirmi
un po’: è stato come dover rinunciare a qualcosa che ti piace molto.
In quei 10 anni ho
ripreso con il mondo del fumetto ma in modo completamente diverso rispetto a
quello che facevo da ragazzino, ho iniziato a fare libri molto personali che stranamente
mi garantiscono un’entrata economica.
In
che condizioni di conservazione sono i video che hai realizzato?
Credo molto buona.
Di
che supporti si compone l’archivio?
MiniDV che conservo qui
ma anche VHS che conservo a Lodi in un sottotetto di una fattoria ma con
precauzioni affinché non si deteriorino.
L’archivio
è stato catalogato?
No. Mi piacerebbe farlo.
Sono ordinati per progetto e questo mi consente di ritrovare con facilità
quello che riguarda i progetti più grossi. Per le sperimentazioni anche i nomi
riportati sul supporto nascevano da idee estemporanee e non necessariamente
legate al girato, quindi sarebbe un po’ più difficile trovare qualcosa di
specifico se volessi cercarlo.
Ti
occupi personalmente dell’archivio e della sua conservazione?
Sì.
Hai
donato/depositato altrove?
Che
accordi avete stipulato?
Non ho firmato un
contratto, credo mi spetti una piccola percentuale ma non ne sono certo.
In
questo caso hai dato una copia del lungometraggio?
No. Non avevo il file
quindi gli ho dato la videocamera con cui ho girato il film.
Ho girato tutto il film
in MiniDV, poi l’ho montato e per mandarlo al Festival ho fatto un Beta che
dovrei avere.
Ci
sono altri aventi diritto sul fondo?
No.