LA SOFFITTA - MONDADORI - OSCAR INK -

La soffitta di AkaB e Squaz torna in libreria grazie a una nuova edizione Mondadori Oscar Ink. Ormai introvabile – fu in origine disponibile solo attraverso preorder –, La soffitta è un’opera ibrida che mescola racconto illustrato e fumetto per narrare una storia oscura e inquietante. Un mondo grottesco fatto di perversioni, esperimenti di modificazione corporale, necrofilia e invasioni aliene che prende vita attraverso i testi di AkaB (Gabriele Di Benedetto) e le illustrazioni di Squaz (Pasquale Todisco).
Il graphic novel nasce da una serie di disegni realizzati da Squaz per una mostra. Quelle che dovevano essere "semplici" illustrazioni scollegate tra loro hanno rivelato un forte potenziale narrativo, estrapolato da AkaB attraverso la propria visione creativa. Alle illustrazioni iniziali si è poi aggiunta una seconda parte, più propriamente fumettistica, che chiude il cerchio di questa proficua collaborazione.
Metà illustrato, metà fumetto, una storia dal sapore inquietante, tra intolleranze alimentari, ossessione per il sesso e per il denaro, messe nere, poesia, esperimenti non autorizzati, alieni e l’oscuro abisso della psiche umana.

Lucca book signing
  • 03 novembre
  • Ore 14.30 Firma copie del libro @Padiglione Napoleone  - Stand Magic Press  NAP241

  • 04 novembre
  • Ore 14.30 Firma copie del libro @Padiglione Napoleone  - Stand Magic Press  NAP241

  • 05 novembre
  • Ore 11.30 Firma copie del libro @Padiglione Napoleone  - Stand Magic Press  NAP241
  • Parliamo un po’ de La soffitta. Com’è nato il progetto?

    Squaz: Tutto è partito da una serie di miei disegni realizzati un po’ a ruota libera. Inizialmente avevo pensato di raggiungere un numero di tavole sufficiente per organizzare una mostra, ma strada facendo mi è parso che quelle tavole contenessero una narrazione di qualche tipo. E di un tipo a me ignoto, per giunta. Come se effettivamente stessi cercando di raccontare qualcosa a mia stessa insaputa. Allora ho pensato di farne un libro. A quel punto però i miei tentativi di abbinare un testo scritto da me si sono rivelati insoddisfacenti. Avevo l’impressione di razionalizzare troppo, mentre le immagini erano esplosive, forti. Temevo di raffreddarle, di togliere loro potenza. Allora ho chiesto aiuto ad AkaB.

    AkaB: Vado a memoria (quindi totalmente inaffidabile). Eravamo a casa mia con Ponticelli e Squaz per ragionare su un progetto da fare insieme, e Squaz mi ha parlato delle illustrazioni per la mostra, chiedendomi se potevo scriverci un testo. Gli ho detto sì e me le ha mandate, quando le ho viste mi sono sembrate slegate tra loro e in nessun modo accomunabili da qualche elemento. Poi sono andato a fare un pisolino (uno dei pochi privilegi nel fare il mio mestiere è che posso dormire quanto e quando voglio) e al risveglio avevo la prima frase in testa. Scritta quella, il resto è uscito tutto insieme come il sangue dal costato di Gesù Cristo in croce.
  • In che modo le modalità atipiche di lavorazione si sono riflesse sul prodotto finale?
    AkaB: Non saprei dire, i disegni sono già una forma di scrittura (!), quindi in qualche modo sono stati loro a dettare le parole. Questa cosa mi ha fatto pensare che sia nella storia di ogni singolo uomo, sia in quella della intera umanità, il disegno viene sempre prima della parola. Basti pensare ai bambini o a gli uomini delle caverne.
    Squaz: Sul fatto che si tratti davvero di una modalità atipica potremmo parlarne a lungo. Forse per il fumetto può essere vero, ma è vero anche che né io né AkaB ci rapportiamo esclusivamente al fumetto ed ai suoi codici. In realtà, molte canzoni nascono proprio in questo modo, partendo cioè dalla musica. E forse è proprio una specie di strana “qualità musicale” che si è trasferita nel nostro lavoro. In senso più tecnico invece, saltano fuori occasionalmente delle piccole incongruenze. Bizzarrie, capricci, parti del discorso che vengono abbandonate e mai più riprese e, in modo speculare, dettagli delle illustrazioni che non hanno una stretta attinenza con la storia. Ma questi più che essere dei difetti sono proprio il DNA di questo libro, aspetti congeniti. Non ci interessava certo realizzare la “storia ad orologeria” dove ogni dettaglio è funzionale alla narrazione, per intenderci. Ne è venuto fuori un libro disfunzionale, che credo ci rappresenti abbastanza fedelmente.
    Parliamo un po’ di voi. Insieme con il precedente Le 5 Fasi, La soffitta rispecchia il vostro interesse artistico e narrativo nei confronti di un certo tipo di immaginario – tenuto conto delle dovute differenze tra l’approccio di Squaz e quello di AkaB. Di cosa vi siete nutriti per partorire questo mondo grottesco e deviato?
    AkaB: Di realtà.
    Squaz: Sì, il nostro rispettivo approccio è abbastanza diverso. Ma credo che, al di là delle ovvie differenze stilistiche, ci siano molte cose in comune tra me ed AkaB. Mi riferisco in particolare al modo di avvicinarsi alla creazione artistica, anche se poi ognuno di noi trova soluzioni diverse alle stesse domande. Sia ne Le 5 Fasi sia ne La soffitta c’è la stessa voglia di mettersi in gioco, per esempio. Di uscire dalla cosiddetta “comfort zone” e di farlo insieme ad altri. Nel caso de La soffitta, quello che mi interessava era non fare sconti al lettore. Non ammiccare, non cercare la sua comprensione, non ironizzare, né prendere le distanze da ciò che si racconta. Nell’epoca dei meme, dove ci si nasconde dietro una battuta per liquidare argomenti anche complessi, io qui non volevo proprio nascondermi. E di meme ne inventerei uno al giorno, vista la mia estrazione Pop… Dal punto di vista del disegno invece, è da molto tempo ormai che non mi chiedo più da dove prendo le cose.
    Come giudicate lo stato di salute del fumetto in Italia? Decenni dopo la stagione delle riviste, si stanno ri-creando degli spazi significativi – intendo soprattutto a livello di circolazione – per un fumetto che si discosta dai canoni del popolare da edicola?
    Squaz: Credo che gli spazi più significativi si stiano creando nella testa delle persone. Nel senso che, tra mille altre cose, c’è sempre più spazio anche per il fumetto. Lo dimostrano ad esempio le decine di fiere e mostre mercato dedicate al settore, alcune decisamente non orientate al fumetto commerciale. Dal punto di vista editoriale, vedo sempre più spazio ai fumetti sulle pagine dei giornali. Ci sono le rubriche a fumetti, c’è il graphic journalism, ci sono i quotidiani con gli inserti. E nella maggior parte dei casi il tipo di fumetto è proprio quello più artistico e meno convenzionale. Per gente come me e AkaB è una grossa opportunità. Devo dire però che il fumetto popolare da edicola e quello indipendente sono in contatto, e lo sono sicuramente più oggi di un tempo. Almeno, da noi in Italia. Parlo certamente di collaborazioni, di scambi tra i due mondi, ma anche del fatto che sono sempre stato d’accordo sulla teoria di Alan Moore secondo la quale il fumetto seriale e quello alternativo sono vagoni dello stesso treno, anche quando apparentemente sembrano andare in direzioni opposte.
    AkaB: Direi proprio che scoppia di salute, forse anche troppo. Non so se durerà, quello che so è che il fumetto ha sempre avuto grande attenzione nei periodi in cui il pensiero fascista torna a dominare.







  • OSCARMONDADORI
  • mappatura degli archivi e dei fondi di videoarte in Italia


    Trascrizione intervista a AkaB:
    di Micol Viola Vitale per
    Universita La Sapienza
    Università di Udine
    Studio Azzurro

    Quando hai iniziato ad utilizzare il video?
    Ho iniziato con i fumetti intorno al ’94 successivamente mi è venuta voglia di vedere i miei disegni in movimento, ho iniziato a fare delle piccole animazioni per capire che effetto facessero. Le prime volte in cui si mette insieme un video, con l’aggiunta dell’audio, si crea una vera magia. Da lì in poi, insieme ad un amico, ho iniziato a fare piccole animazioni: siamo partiti da MTV Italia, che faceva videosigle animate, tutto a Passo 1, mesi e mesi di lavoro e riprese in Super8. Ci siamo confrontati con delle difficoltà tecniche che oggi possono apparire “preistoriche” ma che per me sono state estremamente interessanti perché mi hanno permesso di avere una visione d’insieme. Poi ho avuto una sorta di “crisi”, del tutto normale per un ragazzo di 20 anni, e sono andato a vivere in Islanda per un anno dedicandomi alla pittura.
    Al mio ritorno, mio padre aveva acquistato una MiniDV una videocamera digitale molto piccola, per un uso amatoriale con la quale girava parecchio ma il fatto che non fosse poi capace di riguardare ciò che aveva girato, ha fatto sì che mi impossessassi della sua videocamera.
    È stato l’inizio di tutto: per un anno ho vissuto con la videocamera in mano girando qualsiasi cosa accadesse e riversando la sera, in una sorta di rielaborazione di ciò che vivevo. È tutto materiale su Mini dv che non ho mai riguardato ma che ho conservato perché sono convinto che possa avere grandi potenzialità. Per me la grande scoperta è stata capire che il cinema erano immagini ferme in movimento, “ma allora nemmeno si muovono!”. Il mio primo cortometraggio è stato una follia: l’ho fatto frame per frame con Photoshop, una cosa più semplice da fare in analogico che in digitale perché alla fine avevo qualcosa come 2000 frame, una mole incredibile, pesantissimi e difficili da gestire soprattutto perché i computer non erano quelli di oggi.
    Mattatoio, il mio film in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Nuovi Territori nel 2003, è stato girato con quella stessa videocamera di mio padre, che ho ancora oggi.
    Quindi hai iniziato a conservare il tuo materiale sin da subito?
    Sì, perché sentivo che ciò che giravo dovesse essere preservato e perché mi agevolava nel momento in cui i miei lavori venivano richiesti ai festival. Ho sempre avuto questa sensazione di dover salvare materiale, al tempo eravamo tutti molto giovani e serviva qualcuno che tenesse insieme le cose: l’ho fatto io, in modo meticoloso, quasi ossessivo, ma poi ho perso tutto quel materiale durante un trasloco. Per ciò che riguarda il mio lavoro io non butto nulla, tengo anche gli schizzi che faccio al telefono.
    Come risolvevi i problemi tecnici: ripresa/montaggio?
    Fino a che non ho avuto la videocamera palmare, vedevo l’idea di lavorare con l’ausilio di altre persone come qualcosa di fuori dalla mia portata. Venendo dai disegni, dai fumetti, il mio approccio iniziale è passato attraverso l’animazione, una cosa un po’ più “concreta”, i frame erano lì, ma ho lo stesso dovuto cercare una persona che avesse il Super8 per fare i frame, spedire la pellicola, etc.
    L’avvento del digitale ha cambiato tutto, per 6-7 anni sono entrato in una sorta di “bolla del video”: giravo e montavo, tantissimo materiale, tutti esperimenti. Molto di questo girato è diventato Vjing, con dei software di montaggio live proiettavo i miei video durante alcune serate milanesi.  Per me c’è un forte parallelismo tra il mondo del cinema e quello del fumetto, basti pensare che prima di fare un film si fa un fumetto del film, lo storyboard. Quando ho iniziato a lavorare con i fumetti ero molto giovane, mi sentivo inesperto rispetto ad altri e nonostante fossi io a scrivere gran parte delle storie non mi sentivo ancora pronto per fare l’autore. L’ho capito dopo ma il mio primo lavoro è stato fare il regista dei fumetti: decidevo le inquadrature con il disegnatore, i colori col colorista, la storia con lo sceneggiatore.
    Torni mai su quello che non hai sviluppato ma hai conservato?
    Ho un tratto del carattere che non mi permette di non finire le cose, ho un senso di completezza molto forte. Mi è capitato a più riprese, e continua a succedermi, che chiudo progetti che magari avevo iniziato 5 anni prima.
    Se ho lasciato un progetto in sospeso, so che prima o poi lo chiuderò.
    Hai utilizzato degli esperti? Noleggiato la strumentazione necessaria?
    Ho sempre fatto tutto da solo e mi riferisco anche alla fase di studio che è forse la più entusiasmante.
    Per il primo film che è andato a Venezia eravamo io, la mia ragazza dell’epoca e un mio amico che era anche l’attore protagonista. Poi ho girato un lungometraggio con i ragazzi di una scuola di cinema di Milano in cui tenevo un corso di cinema sperimentale.
    Dopo è arrivato un piccolo produttore di Milano che all’epoca si occupava di videoclip e che mi ha prodotto un corto, forse l’unico audiovisivo che ho prodotto in condizioni “normali”. Era un fumetto, ne avevo fatto la sceneggiatura e lo storyboard, dovevo solo dire agli altri che tipo di inquadratura fare e spesso, per questioni di spazi, le scene avvenivano in un’altra stanza ed io ero da solo con un monitor. È stato strano: ero abituato a fare tutto e di colpo non dovevo più fare nulla. Non posso nascondere che sento questo lavoro meno mio rispetto agli altri.
    Chi sono i tuoi finanziatori?
    Non ho avuto altre esperienze oltre a quella che ho appena raccontato.
    Hai delle committenze?
    Mentre insegnavo nella scuola di cinema mi è capitato di girare un cortometraggio che una casalinga di Voghera aveva scritto, la storia era incentrata sul rapporto dei suoi due fratelli con il padre. Era scritta in modo molto sentimentale. Devo ammettere che è stata un’esperienza molto divertente: lei mi ha pagato ed io ho un po’ scombinato la trama.
    Una seconda occasione di committenza è arrivata da parte di un signore sardo che però non aveva una vera storia e voleva che fossi io a crearne una dai pochi spunti che mi aveva dato ma in questo caso mi sono accorto che era una situazione che non aveva senso per me.
    La produzione video ti garantisce un’entrata economica?
    La mia storia mi ha portato ad interessarmi ai vari linguaggi, come il teatro, la danza moderna, la musica, perché penso che in qualche modo siano tutti figli di una matrice comune e sia importante fraternizzare con ognuno. Tornare ai fumetti dopo 7 anni di cinema è stata tutta un’altra cosa, in quegli anni avevo acquisito un’idea totalmente nuova del montaggio.
    Tra i vari mondi e linguaggi che ho frequentato, trovo che il cinema sia il più divertente, il più soddisfacente, quello in cui mi sento a casa. La dinamica del cinema, scrivi un film e sei da solo, lo pre-produci con al massimo un’altra persona, giri e vivi un momento di grande interazione e poi ritorni alla solitudine, è poi molto vicina alla mia natura, che mi impone di alternare momenti di solitudine a momenti di socialità.
    È qualcosa che farei sempre ma dai video non ho mai guadagnato nulla.
    In fondo credo che a muovermi sia sempre stata la curiosità: dopo una lunga serie di esperimenti mi è venuta voglia di provare a fare qualcosa di narrativo, che contenesse una storia, una sorta di grande magia, di grande upgrade. Ho iniziato a fare dei cortometraggi, alcuni dei quali sono andati a dei festival, alla base c’era la voglia di capire come funzionasse una storia. Una volta compreso come sviluppare i cortometraggi, ho voluto provare a fare un lungometraggio spinto soprattutto dalla voglia di scoprire come risolvere le problematiche strutturali che potevano sorgere.
    È questa la logica con cui ho girato il film: non faccio un film bello o brutto, né faccio un film da mostrare agli altri. Si erano venute a creare una serie di fortunate coincidenze: era estate, avevamo 3 mesi, una persona ci aveva lasciato la sua casa, il progetto entusiasmava me e le altre persone coinvolte. Mattatoio è nato così, ed è stato proposto al Festival di Venezia dai proprietari della casa in cui avevo girato e della scuola di cinema in cui avevo insegnato.
    Venezia è stata un’esperienza molto diversa da ciò che mi aspettavo, molto meno incentrata sul cinema di quanto credessi. Ad esempio, ho scoperto che i critici spessissimo si addormentano in sala e confondono scene di diversi film.  Su Mattatoio lessi una critica che diceva quanto una scena non avesse nulla a che fare con il resto del film e il critico aveva ragione: la scena citata non era nel mio film ma in un corto spagnolo che era dopo il mio!
    Tornando al discorso economico: al Festival di Venezia Mattatoio era nella sezione “Nuovi Territori” ed esiste una regola per cui se le sale scelgono di trasmettere il film più di un mese dopo il Festival, i film vanno direttamente ai cinema d’essai. Quindi i piccoli cinema che hanno poi chiesto Mattatoio, non mi hanno dato nulla a livello economico.
    Lì ho capito quanto possa essere difficile mantenersi solo con la produzione audiovisiva.
    C’è un mercato?
    Ancora oggi non mi è chiaro come si possa vivere, e mantenersi, solo lavorando con i video.
    In che contesti vengono mostrati i tuoi video?
    Prevalentemente festival.
    Qualche mese fa mi ha contattato un ragazzo che ha creato questa specie di Netflix di tutto ciò che non ha avuto distribuzione ed ho accettato di far parte del suo catalogo. Fino a quel momento avevo sempre detto di no anche a proposte interessanti. Dopo Mattatoio, Il corpo di Cristo e Vita e opere di un santo, non ho più voluto saperne e rifiutavo le proposte di invito da parte dei festival ma anche proposte di lavoro in questo ambito. È come se fossi stato ferito in una storia d’amore: da un lato non voglio parlarne perché ho vissuto dei bei momenti, ma dall’altro sento di non essere stato ricompensato in proporzione a quanto ho investito.
    Come pensi venga valutata la videoarte nel contesto delle arti visive?
    Come ho detto, mi piace frequentare diversi linguaggi. Mi è capitato di essere invitato a festival di arte in periodi nei quali normalmente esponevo tele ma essendo momenti in cui ero molto preso dai video chiedevo sempre se fosse possibile mettere anche delle mie videoinstallazioni, per me avevano lo stesso valore delle immagini ferme.
    Pensi che ci siano pregiudizi da parte dei critici nei confronti della videoarte?
    L’unico pregiudizio che sento molto forte, e credo sia molto italiano, riguarda il fatto che io fossi conosciuto perché facevo fumetti e nel mondo dei fumetti la mia produzione video era vista molto male, come se non si potessero frequentare linguaggi diversi e si dovesse restare vincolati ad uno spicchio di mondo. Ma più si va indietro nel tempo e più si nota quanto il ruolo dell’artista in origine avesse a che fare col sapere più cose possibili, nei più svariati ambiti, era qualcosa che dava densità ai lavori.
    Adesso tutto è fortemente specializzato, separato. Io invece ho bisogno di vedere come cose diverse possono compenetrarsi nel mio lavoro, quanto il mio sguardo possa farsi più profondo su certe cose.
    La produzione video è una costante della tua attività? Ti ha coinvolto solo per un periodo? Se sì, perché hai troncato con questa pratica?
    Per me è stato un amore improvviso e non ho pensato ad altro per 6-7 anni, che sono poi gli stessi impiegati dalle cellule a rigenerarsi e cambiarti completamente.
    Poi è finita: ero andato a fondo su quegli aspetti che mi interessavano e finché vivevo un processo di apprendimento compensavo la mancanza di un ritorno economico con un ritorno in termini di conoscenze. Quando ho aperto gli occhi questa era anche la parte che compensava il fatto che non ci fossero delle entrate economiche perché il fatto di imparare era per me già una sorta di ritorno, ma una volta finito questo processo di apprendimento ho come aperto gli occhi e capito che non avevo avuto nulla in cambio. Ho chiuso drasticamente e ci ho messo 10 anni per ammorbidirmi un po’: è stato come dover rinunciare a qualcosa che ti piace molto.
    In quei 10 anni ho ripreso con il mondo del fumetto ma in modo completamente diverso rispetto a quello che facevo da ragazzino, ho iniziato a fare libri molto personali che stranamente mi garantiscono un’entrata economica.
    In che condizioni di conservazione sono i video che hai realizzato?
    Credo molto buona.
    Di che supporti si compone l’archivio?
    MiniDV che conservo qui ma anche VHS che conservo a Lodi in un sottotetto di una fattoria ma con precauzioni affinché non si deteriorino.
    L’archivio è stato catalogato?
    No. Mi piacerebbe farlo. Sono ordinati per progetto e questo mi consente di ritrovare con facilità quello che riguarda i progetti più grossi. Per le sperimentazioni anche i nomi riportati sul supporto nascevano da idee estemporanee e non necessariamente legate al girato, quindi sarebbe un po’ più difficile trovare qualcosa di specifico se volessi cercarlo.
    Ti occupi personalmente dell’archivio e della sua conservazione?
    Sì.
    Hai donato/depositato altrove?
    Su Carboluce c’è Mattatoio.
    Che accordi avete stipulato?
    Non ho firmato un contratto, credo mi spetti una piccola percentuale ma non ne sono certo.
    In questo caso hai dato una copia del lungometraggio?
    No. Non avevo il file quindi gli ho dato la videocamera con cui ho girato il film.
    Ho girato tutto il film in MiniDV, poi l’ho montato e per mandarlo al Festival ho fatto un Beta che dovrei avere.
    Ci sono altri aventi diritto sul fondo?
    No.



    PLUME

    Introduzione a PLUME 

    Nel mondo dell'editoria, ed intendo nella grande sfera che riunisce gli atlanti, agli harmony, ai grandi best seller da vendere a bancali, i prodotti che sono sempre stati difficili da piazzare sono i fumetti e le raccolte di racconti brevi. Da questo si desume che una raccolta di racconti brevi a fumetti sia la quinta essenza del coraggio nel mondo editoriale. E quello che avete tra le mani in questo istante è esattamente la quinta essenza del coraggio nel mondo editoriale. Nella fattispecie il coraggio è doppio, poiché le storie sono firmate da quella testa calda di AkaB.
    L'ho conosciuto non ricordo nemmeno quanto tempo fa. Ricordo però che era vestito di nero. E che parlava. Praticamente le condizioni in cui l'ho sempre trovato ogni volta che da quel giorno in poi ho avuto il piacere di imbattermici - sogno un AkaB vestito di giallo, intento a fissare in silenzio l'orizzonte.
    Amarcord a parte, in questo Plume, tutt'altro che lieve, vediamo scorrere episodi brevi e brevissimi, tutti contraddistinti dallo stesso tono dimesso e dalla medesima, rancorosa ironia che in fondo alle pagine arriva sempre a sfidare a muso duro il lettore con un ghigno disturbante. Di pagina in pagina, si dipana un arcobaleno monocromatico fatto di colori fangosi. Le storie non tacciono rivelazioni oscure sulla coscienza dei protagonisti e in generale su quella dell'essere umano disegnato quasi sempre come uno sgorbio spigoloso e tormentato. Una spanna sopra penso sia la storia Alfredino Vermicino, episodio monumentale di antifumetto in cui tempo e passioni sono scandite minimalmente dal battito vivido del bianco sul nero.
    Come potete vedere dalla copertina, le storie di AkaB sono raccolte sotto l'ala tutelare di una splendida cornacchia. Questo mi dà da pensare. Anche se l'albo a fumetti di cui state per intraprendere la lettura è l'Opera Omnia nel campo dell'istantaneo del nostro, io mi trovo tentato a ribattezzarla Grande Opera, come se fosse una sorta di riassunto alchemico di tutti i suoi lavori a corto e medio raggio. Non a caso in copertina c'è quel nerissimo corvo, simbolo della nigredo, primo stadio nella ricerca dello studioso pre-rinascimentale verso il divino splendore dell'oro alchemico.
    Se è vero che ogni bestemmia è una preghiera, la preghiera di un uomo disperato che invoca l'aiuto di dio che non sopraggiunge mai, allora ognuna di queste storie, storie di odio, orrore, malessere, sono, viste in controluce, storie di profondo amore. Così come non c'è preghiera più sonora della bestemmia, non c'è via migliore di celebrare l'amore se non mostrando le bassezze e l'atarassia dell'uomo moderno, e allo stesso modo non c'è modo preferibile di celebrare la vita se non celebrando la morte.
    Ci sono scienziati che hanno avuto l'ardire di paragonare il cuore, il cuore umano, la gemma della vita, ad un motore e l'apparato, il corpo dell'uomo, ad una macchina. A questo punto io direi che ogni associazione o allegoria è possibile. Esoterismo, occultismo, misticismo, ci aiutano ad allargare il nostro pensiero almeno quanto la scienza sana della fisica, dell'astrofisica, della matematica, ma mentre queste indagano le leggi del mondo esteriore, le prime illuminano le spelonche del nostro mondo interiore. Abbiamo cercato dio in una farneticante particella che schizza impazzita in un cinodromo costato miliardi di non-sappiamo-nemmeno-quale-genere di moneta, mentre echi oscuri, concretamente misteriosi, ci appaiono quando il nostro sguardo è velato e il nostro cuore traballa infelice sul crinale della follia. Dove sono adesso? Dove sarò tra cent'anni? Fin dove arriva la competenza della mia vita? Andrà oltre la mia sussistenza organica? Quasi sicuro di no, ma perché dentro di me, allora, s'aggira qualcosa di così protocosmico, che sento di poter spappolare il sole con la sola forza del mio sopracciglio?


    Plume è un passaggio segreto, dentro la catacomba del nostro cuore si apre un campo oscuro e impenetrabile, dove scroscia ancora furente il Diluvio Universale. Se mandiamo colombe torneranno cornacchie. Se cerchiamo ramoscelli d'ulivo troveremo filo spinato. Dove l'uomo, inteso come creatura civile, evoluta e pensante, è ancora un essere implume. 
    Marco Taddei


















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    AkaB / SquaZ - LA SOFFITTA

    Un uomo dalla formidabile memoria viene portato in una casa che dovrebbe riconoscere ma non riesce a ricordare. 
    Qualcosa è successo ed è stato cancellato. 
    L’uomo rivede la sua vita nel tentativo di ritrovarne i pezzi mancanti. 
    Tra alieni, messe nere, dipartimenti segreti, ossessione per sesso e denaro, poesia e intolleranze alimentari arriverà a depennare l’ultima voce della sua lista, scoprendo cosa si cela nella soffitta.











    Formato 22 x 29,7 cm 
    56 pagine a colori 
    Cartonato


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