Cosa resta del padre?

I lavori di Akab non sono provocazioni fini a loro stesse. Non estrae a caso delle immagini popolari e di consumo per isolarle ed elevarle ad "arte".
Akab conosce e ama profondamente tutti i soggetti che ritrae. Ma a un certo punto è mancato loro qualcosa. O, al contrario - ma con lo stesso identico risultato emotivo - questi soggetti sono stati caricati di troppi significati, troppa rilevanza, troppa indispensabilità.

Massimo Recalcati - tra i più noti psicoanalisti lacaniani in Italia - in un suo recente libro "Cosa resta del padre? - la paternità nell'epoca ipermoderna" ci offe un passaggio letterario che serendipicamente pare cucito addosso all'ars di Akab: "Conservare e buttare via sono movimenti egualmente fondamentali che attraversano ogni esperienza di lutto. Ma non sono in opposizione.
La psicoanalisi sa che esiste una dialettica fine tra questi due movimenti.
È quella che Freud a suo modo racconta nel gioco del rocchetto del piccolo Ernst: l'assenza dell'oggetto è la condizione perché riappaia la sua presenza. E la sua presenza oscilla sempre verso la sua assenza.
Nel nostro tempo, nel tempo ipermoderno, gli oggetti proliferano intasando ogni assenza possibile. Il discorso del capitalista è un antilutto.
L'oggetto di godimento esige il suo ricambio continuo. Non sprigiona alcuna aurea. La sua funzione, più che feticistica, è anestetica. Serve per attutire il dolore di esistere e per addomesticare, sedare, congelare il desiderio.
L'oggetto non celebra alcuna memoria, non racconta nulla, non conserva alcuna memoria, non è nulla, pur essendo diventato tutto per il soggetto che ne dipende patologicamente."

Akab oscilla spaventosamente tra la difficoltà a "tenere fermo il mortuum", come direbbe Hegel, ovvero la difficoltà ad assumere la perdita irreversibile dell'oggetto simbolizzandola (e quindi allontana le cose, le getta via, ricerca una sepoltura definitiva) e il collezionismo che esorcizza l'irreversibilità. Sempre citando Recalcati: "conservare ogni traccia per raggiungere fantasmaticamente la sua immobilizzazione, la sua sospensione. Èun fantasma che la clinica psicoanalitica definisce "ossessivo" ".
A questo punto Akab deve gestire questa oscillazione, questo sentimento, questo senso di slittamento dall'ideale primigenio di cui era ammantato il soggetto-oggetto (che sia un senso della perdita, della lontananza, della mancanza, oppure della sovraesposizione e sovraintrusione di ogni spazio vitale), per far sì che non emerga solo il dolore.

Quindi elabora con i suoi ritratti questo lutto dell'immaginario collettivo, provando a restituirgli una ulteriore possibilità di vita con una (sua) memoria, oppure decidendo per una rapida eutanasia, uno smembramento artistico del soggetto, uno strappo definitivo che permette finalmente di associargli ancora una sensazione, una emozione, anche se non positiva.
Quella che emerge sull'opera finale, è una nuova figura che sia accettabile nel Brave New World, il "Mondo Nuovo" in cui adesso viviamo.

"Cosa resta del padre?" si può estendere metaforicamente a gran parte delle opere di Akab. In senso esteso, la maggior parte dei suoi soggetti sono figure paterne, o figure che nell'immaginario collettivo sono servite ai giovani lettori o spettatori televisivi, come succedaneo di fornitori di indirizzo ed etica, rispetto a padri troppo occupati col lavoro, con amanti, con i loro stessi fantasmi paterni.
Popeye, Daredevil, Dylan Dog, Batman e Robin, Fonzie, Darth Vader, lo zio Fester, Spock, Mork, Voldemort, perfino il verde Kermit la Rana e il rosaceo Uan, sono tutte rappresentazioni di un adulto o paragoni per un sé maturo e completo del giovane fruitore. Rappresentazioni ammantate per scelte commerciali ed editoriali di un moralismo che spesso diventava umorismo involontario.
Akab affronta e si scontra con la sua produzione con tutte queste figure paterne e partenalistiche, in un eterno Edipo.
In pochissimi casi Akab osa avvicinarsi al cosidetto "fanciullino".
Uno di questi, e quindi per la sua "eccezionalità", ci colpisce tanto da farcelo estrapolare nell'analisi, è "Alfredino Vermicino".
In questo caso il soggetto non ha nulla di risolto all'origine. Non ha alcuna morale o identità imposta artificialmente, che necessita di essere smontata. Non ha alcuna sicurezza, non ha alcun messaggio. Anzi, il bambino Alfredino, e la sua voce artistica riportata nella storia di Akab, queste cose le cerca disperatamente, le reclama, si colpevolizza per non essere all'altezza.
La storia reale di Alfredino è inquietante. Questa inquietudine riemerge nell'opera di Akab, non tanto per il suo svolgimento, ma proprio per la realizzazione in se stessa. Una cosa sono le mille trasmissioni televisive che ricostruiscono i fatti di cronaca, con una narrazione giornalistica o riportando gli spezzoni Tv dell'epoca. Una cosa è rielaborare narrativamente i pensieri, le immagini, le emozioni. Sopratutto in un fumetto, genere letterario mandato in giro dalla critica da sempre con una lettera scarlatta ben cucita sul petto.
Akab deve quindi scegliere cosa ricostruire e come farlo.

Riccardo Corbò
Estate 2012